venerdì 6 settembre 2013


Etnologia

IL PUBBLICO DEI CANTASTORIE

Giovanni Virgadavola: La Baronessa di Carini 


Tre sono normalmente i soggetti che danno luogo a una comunicazione artistica (narrativa, poesia, arti visive): l’autore, l’opera e il fruitore.
1.     L’autore è il creatore dell’opera: la concepisce, la estrinseca e la realizza dando forma alle sue fantasie.
2.     L’opera è il frutto di quelle fantasie: ha una specifica forma, un tema morale, lirico, drammatico o epico, e un contenuto inteso come visione del mondo.
3.     Il fruitore può essere di vario tipo: lettore (narrativa), spettatore (cinema, danza), ascoltatore (musica), visitatore (arti visive).

Nel caso dei cantastorie (così come avviene nella musica) i soggetti che danno luogo alla comunicazione artistica sono quattro: oltre ai primi tre bisogna includere anche il cantastorie, che si fa mediatore fra autore e spettatore. Il cantastorie interpreta il testo, lo fa proprio, lo offre al pubblico con quei tratti recitativi e gestuali che ne esaltano la drammaticità e la funzione catartica.

L’opera, oltre al racconto dei fatti (fabula), costruisce un modello entro il quale il pubblico si ritrova e si identifica; a volte è un modello conforme alle sue regole sociali ed etiche, altre volte non è conforme ma subisce un ribaltamento. L’opera dei cantastorie è generalmente un testo epico (Salvatore Giuliano) o agiografico (La vita di Sant’Agata) o di cronaca (i tanti fatti di sangue che hanno dato luogo a clamorosi casi giudiziari) e anche di costume (la parità dei sessi, le contrapposizioni fra generazioni ecc.).  

Il pubblico dei cantastorie ha connotati precisi: fino agli anni sessanta era un pubblico di contadini, di lavoratori a giornata, di impiegati, di ragazzi o di giovani; difficilmente si vedevano donne o commercianti, artigiani e professionisti (questi ultimi erano occupati nelle attività lavorative). Dopo gli anni sessanta il cantastorie, oltre alle piazze, acquista anche altri spazi di spettacolo: le arene e i teatri, i palchi delle piazze, gli ambienti culturali, i raduni; il pubblico si fa più eterogeneo e più esigente; il cantastorie cambia repertorio o il modo di proporre il testo; diventa più attore e ricerca nuove forme musicali e recitative, sconfinando spesso nei generi di pertinenza dei folksinger o dei cantautori, si fa accompagnare da altri (prima era solo) mettendo su un vero e proprio spettacolo musicale.
Se il cantastorie si evolve prendendo le strade di una nuova comunicazione artistica per venire incontro alle esigenze più smaliziate e più sofisticate del pubblico moderno, dall’altra parte il pubblico stesso si dispone all’ascolto con un duplice interesse: il primo è costituito dalla curiosità di assistere a uno spettacolo tradizionale che nei tratti essenziali è rimasto inalterato per centinaia di anni; il secondo è riconducibile al fascino che esercita il racconto, la storia, ubbidendo a quella necessità poetica, affabulatoria e narrativa, che appartiene alla natura umana.  
Il pubblico dei cantastorie è dunque un pubblico che si attende molte cose da quello che il cantastorie gli propone; vediamone alcune.
  
1 - Il piacere
Il piacere ha una duplice espressione: quella della condivisione dei valori sociali e quella del loro ribaltamento.
Si ha la condivisione quando il pubblico si riconosce nelle storie raccontate, le quali presentano un modello universale e non particolare: il senso della giustizia, l’amore materno o quello fra due innamorati, la fede cristiana e la santità della vita, l’onestà e la laboriosità; questi valori, che appartengono ai vecchi modelli della società contadina, agli antichi valori ordinati da un forte senso dell’appartenenza a un gruppo sociale ben individuato e circoscritto, rispecchiano pienamente le regole conosciute e praticate da quel pubblico e quindi vederle applicate anche nella storia che si ascolta procura un senso di soddisfazione, di sicurezza e quindi di piacere.
Si ha invece il ribaltamento quando attraverso la storia si arriva alla liberazione dalle regole sovrastrutturali imposte dalla società. In questo modo si sovverte la scala dei valori condivisi da un gruppo o da una società ricostruendola secondo le categorie dei valori assoluti o naturali (l’amore, la giustizia umana, il soddisfacimento dei bisogni ecc.).
Per farvi un esempio prendiamo due casi emblematici: Salvatore Giuliano e La baronessa di Carini.

1.1 - Nel poemetto sul bandito di Montelepre il pubblico, abilmente condotto dal cantastorie e stimolato dal testo, accorda la propria simpatia al bandito e non certo ai carabinieri e alla Legge, la quale viene vista come coercitiva e ingiusta. Il pubblico, stimolato dal cantastorie che faceva leva anche sui sentimenti materni e passionali dell’ambiente familiare, giustificava le azioni delittuose del giovane bandito perché in Giuliano si vedeva l’esito estremo ed eroico di un forte comune malumore per leggi ritenute inique e antipopolari. Il Robin Hood siciliano venne indotto alla macchia per sottrarre un sacco di grano alle ingiuste leggi daziarie e protezionistiche che non consentivano di sfamare la sua famiglia. Anzi cominciò a rubare ai ricchi per dare ai poveri, secondo un principio di eguaglianza sociale e umana. Il sovvertimento dei valori avveniva dunque su una scala di diritti primari: primo bisognava mangiare e poi si poteva parlare di ordine pubblico, mentre in ogni società democratica e ordinata secondo i principi giurisdizionali del diritto civile, al primo posto c’è il rispetto delle regole sociali e morali.

1.2 - Ne “La baronessa di Carini” avviene la stessa cosa. Sappiamo tutti quanto i siciliani tengano alla fedeltà coniugale, al rispetto delle regole matrimoniali e alla sottomissione della donna al marito; tutti, nella vita reale, disapproviamo l’abbandono di una donna sposata all’amore di un altro uomo, eppure nella finzione letteraria, giustifichiamo un amore fuori delle regole. E quando don Cesare Lanza, padre di Laura, sposata con don Vincenzo II La Grua, uccide la figlia perché ha infangato il nome della casata divenendo amante del cavaliere Ludovico Vernagallo, il pubblico insorge verso quel gesto tremendo e piange la morte di Laura. L’ascoltatore mette al primo posto l’amore, quel sentimento che non ha regole e costrizioni e che come un fiume in piena tutto travolge e inonda. Così avviene al cinema, così avviene leggendo un romanzo e così avviene ancora ascoltando “l’amaro caso della baronessa di Carini”.
Questo primato dei diritti naturali cui l’uomo obbedisce in modo spontaneo e immediato ci suggerisce una domanda cruciale: cos’è la letteratura e, nel caso nostro, quali funzioni esercita la storia che viene raccontata?
La letteratura è, fra tutte le sue possibili definizioni, una ricostruzione verosimile del reale, nel senso che ci dà un’immagine o un modello della realtà, utilizzando i procedimenti del realismo letterario che sono simili ma non uguali a quelli che si svolgono nella vita concreta di tutti i giorni.
Nel grande mare della letteratura vanno a confluire diversi fiumi; fra questi quello dell’epica è uno dei più importanti e dei più vicini al gusto del pubblico. L’epica narra le vicende eroiche o tragiche di un popolo, di un gruppo di persone o di un solo individuo e smuove i sentimenti più profondi dell’ascoltatore, il quale si identifica con l’eroe e lo segue con trepidazione nelle sue avventure. Inoltre l’epica, come tutte le opere d’arte, procura piacere nell’ascoltatore, nel senso che lo libera da inibizioni profonde e inconsce, disponendolo favorevolmente all’accettazione dei fatti che verranno raccontati. In tal senso l’opera letteraria ha la stessa funzione del lettino dello psicanalista e il cantastorie veste i panni dello psichiatra che cerca di scoprire e curare le angosce e le ansie dell’ammalato.
Già Freud aveva individuato questa funzione terapeutica dell’arte e Norman N. Holland  in un suo saggio memorabile (La dinamica della risposta letteraria – Il Mulino edizioni, 1986) scandaglia l’approccio psicanalitico all’opera letteraria mettendo in evidenza il patto che si instaura fra autore e lettore e, nel nostro caso, fra il cantastorie-mediatore e l’ascoltatore. È in virtù di questo patto che il pubblico giustifica e accetta quel sovvertimento morale che altrimenti non potrebbe giustificare nella vita reale.

 2 - La solidarietà fra le persone del gruppo sociale a cui l’ascoltatore appartiene.
L’uomo vive di consenso e nel consenso, cioè viene pienamente soddisfatto (ha piacere) se si può riconoscere ampiamente nelle regole e nella vita del suo stesso gruppo. I contadini che ascoltavano la storia di Giuliano appartenevano allo stesso ceto e lo stesso bandito di Montelepre apparteneva a quel ceto, quindi in questo caso c’è una doppia identificazione con un maggiore coinvolgimento psicologico e culturale.


3 - La catarsi.
Già Aristotele, nella sua Poetica, ci ha parlato di catarsi della tragedia. “L'arte è considerata un'imitazione della natura secondo verosimiglianza, che arreca diletto e nel contempo trasmette conoscenza. L'arte tragica, in particolare, mette in scena le passioni umane, lasciando comunque trapelare un ordine razionale nel susseguirsi degli eventi. Lo spettatore, per via della verosimiglianza del materiale tragico, è spinto a immedesimarsi nella vicenda fino a ottenere la "catarsi", un liberatorio distacco dalle passioni rappresentate, che interviene nel momento in cui si coglie la razionalità celata negli eventi. Proprio per questo valore conoscitivo la poesia è "più filosofica" della storia. (Microsoft ® Encarta ® Enciclopedia Premium. © 1993-2004 Microsoft Corporation.).
Questo concetto è vicino e consequenziale a quello citato del piacere perché è proprio il piacere che procura quel distacco dalle passioni rappresentate producendo il vuoto nella nostra coscienza; in questo vuoto ci sentiamo di accogliere le ragioni dell’eroe, il quale ci porta una nuova più alta logica delle cose e ci libera dalle nostre costrizioni mentali e culturali.

  4 - La formalizzazione
Questo è un aspetto che è correlato allo stile del cantastorie e a quello dell’opera. Per quanto riguarda il cantastorie tradizionale i tratti più evidenti del suo stile erano:
à        il suo arrivo con un’automobile facilmente riconoscibile per le esplicite scritte;
à        la scelta di uno spazio adeguato;
à        la preparazione dello spettacolo con cartellone, chitarra, sedia, bacchetta ecc.;
à        il suo invito al pubblico ad accorrere per sentire la tragica storia;
à        l’attacco recitato – alto e solenne – con l’invito al pubblico;
à        il racconto della storia che alterna commenti e versi recitati ad altri cantati;
à       la voce stessa del cantastorie, di chiara estrazione contadina, baritonale o tenorile, gutturale e modulata secondo poche ma vibranti tonalità.

Per quanto riguarda la storia essa viene proposta secondo gli schemi tradizionali dell’epos siciliano: sestine o ottave di endecasillabi a rima alterna con un racconto dei fatti che ubbidisce a uno schema ben riconoscibile:
à   un proemio dove si presenta il contesto degli avvenimenti e si dà il primo commento;
à  lo sviluppo della storia, intercalato di osservazioni personali da parte del cantastorie, il quale interviene nella storia con la stessa funzione che ha il coro nella tragedia greca;
à   l’epilogo dove si invoca la divinità a rendere giustizia dei misfatti dell’uomo: L’epilogo ha anche una funzione didattica molto evidente: vuole ricordare agli ascoltatori che bisogna operare il bene e la giustizia se non si vuole incorrere nel disordine sociale e nella punizione divina.
  

Abbiamo voluto esplicitare i tratti più evidenti che caratterizzavano il pubblico dei cantastorie e che forse ancora sono attuali anche per lo smaliziato pubblico di oggi. Siamo coscienti che tutto cambia e si evolve nel quadro di una comunicazione sempre più globale e coinvolgente; ma fin quando ci sarà una storia da raccontare potremo suscitare l’eterno stupore della nostra fantasia, sospendendo per poche ore la nostra incredulità e accettando le regole imposte dal cantastorie e dalla storia che racconta. 

Corrado Di Pietro: da Ethnos 2006















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