venerdì 6 settembre 2013


Etnologia

IL PUBBLICO DEI CANTASTORIE

Giovanni Virgadavola: La Baronessa di Carini 


Tre sono normalmente i soggetti che danno luogo a una comunicazione artistica (narrativa, poesia, arti visive): l’autore, l’opera e il fruitore.
1.     L’autore è il creatore dell’opera: la concepisce, la estrinseca e la realizza dando forma alle sue fantasie.
2.     L’opera è il frutto di quelle fantasie: ha una specifica forma, un tema morale, lirico, drammatico o epico, e un contenuto inteso come visione del mondo.
3.     Il fruitore può essere di vario tipo: lettore (narrativa), spettatore (cinema, danza), ascoltatore (musica), visitatore (arti visive).

Nel caso dei cantastorie (così come avviene nella musica) i soggetti che danno luogo alla comunicazione artistica sono quattro: oltre ai primi tre bisogna includere anche il cantastorie, che si fa mediatore fra autore e spettatore. Il cantastorie interpreta il testo, lo fa proprio, lo offre al pubblico con quei tratti recitativi e gestuali che ne esaltano la drammaticità e la funzione catartica.

L’opera, oltre al racconto dei fatti (fabula), costruisce un modello entro il quale il pubblico si ritrova e si identifica; a volte è un modello conforme alle sue regole sociali ed etiche, altre volte non è conforme ma subisce un ribaltamento. L’opera dei cantastorie è generalmente un testo epico (Salvatore Giuliano) o agiografico (La vita di Sant’Agata) o di cronaca (i tanti fatti di sangue che hanno dato luogo a clamorosi casi giudiziari) e anche di costume (la parità dei sessi, le contrapposizioni fra generazioni ecc.).  

Il pubblico dei cantastorie ha connotati precisi: fino agli anni sessanta era un pubblico di contadini, di lavoratori a giornata, di impiegati, di ragazzi o di giovani; difficilmente si vedevano donne o commercianti, artigiani e professionisti (questi ultimi erano occupati nelle attività lavorative). Dopo gli anni sessanta il cantastorie, oltre alle piazze, acquista anche altri spazi di spettacolo: le arene e i teatri, i palchi delle piazze, gli ambienti culturali, i raduni; il pubblico si fa più eterogeneo e più esigente; il cantastorie cambia repertorio o il modo di proporre il testo; diventa più attore e ricerca nuove forme musicali e recitative, sconfinando spesso nei generi di pertinenza dei folksinger o dei cantautori, si fa accompagnare da altri (prima era solo) mettendo su un vero e proprio spettacolo musicale.
Se il cantastorie si evolve prendendo le strade di una nuova comunicazione artistica per venire incontro alle esigenze più smaliziate e più sofisticate del pubblico moderno, dall’altra parte il pubblico stesso si dispone all’ascolto con un duplice interesse: il primo è costituito dalla curiosità di assistere a uno spettacolo tradizionale che nei tratti essenziali è rimasto inalterato per centinaia di anni; il secondo è riconducibile al fascino che esercita il racconto, la storia, ubbidendo a quella necessità poetica, affabulatoria e narrativa, che appartiene alla natura umana.  
Il pubblico dei cantastorie è dunque un pubblico che si attende molte cose da quello che il cantastorie gli propone; vediamone alcune.
  
1 - Il piacere
Il piacere ha una duplice espressione: quella della condivisione dei valori sociali e quella del loro ribaltamento.
Si ha la condivisione quando il pubblico si riconosce nelle storie raccontate, le quali presentano un modello universale e non particolare: il senso della giustizia, l’amore materno o quello fra due innamorati, la fede cristiana e la santità della vita, l’onestà e la laboriosità; questi valori, che appartengono ai vecchi modelli della società contadina, agli antichi valori ordinati da un forte senso dell’appartenenza a un gruppo sociale ben individuato e circoscritto, rispecchiano pienamente le regole conosciute e praticate da quel pubblico e quindi vederle applicate anche nella storia che si ascolta procura un senso di soddisfazione, di sicurezza e quindi di piacere.
Si ha invece il ribaltamento quando attraverso la storia si arriva alla liberazione dalle regole sovrastrutturali imposte dalla società. In questo modo si sovverte la scala dei valori condivisi da un gruppo o da una società ricostruendola secondo le categorie dei valori assoluti o naturali (l’amore, la giustizia umana, il soddisfacimento dei bisogni ecc.).
Per farvi un esempio prendiamo due casi emblematici: Salvatore Giuliano e La baronessa di Carini.

1.1 - Nel poemetto sul bandito di Montelepre il pubblico, abilmente condotto dal cantastorie e stimolato dal testo, accorda la propria simpatia al bandito e non certo ai carabinieri e alla Legge, la quale viene vista come coercitiva e ingiusta. Il pubblico, stimolato dal cantastorie che faceva leva anche sui sentimenti materni e passionali dell’ambiente familiare, giustificava le azioni delittuose del giovane bandito perché in Giuliano si vedeva l’esito estremo ed eroico di un forte comune malumore per leggi ritenute inique e antipopolari. Il Robin Hood siciliano venne indotto alla macchia per sottrarre un sacco di grano alle ingiuste leggi daziarie e protezionistiche che non consentivano di sfamare la sua famiglia. Anzi cominciò a rubare ai ricchi per dare ai poveri, secondo un principio di eguaglianza sociale e umana. Il sovvertimento dei valori avveniva dunque su una scala di diritti primari: primo bisognava mangiare e poi si poteva parlare di ordine pubblico, mentre in ogni società democratica e ordinata secondo i principi giurisdizionali del diritto civile, al primo posto c’è il rispetto delle regole sociali e morali.

1.2 - Ne “La baronessa di Carini” avviene la stessa cosa. Sappiamo tutti quanto i siciliani tengano alla fedeltà coniugale, al rispetto delle regole matrimoniali e alla sottomissione della donna al marito; tutti, nella vita reale, disapproviamo l’abbandono di una donna sposata all’amore di un altro uomo, eppure nella finzione letteraria, giustifichiamo un amore fuori delle regole. E quando don Cesare Lanza, padre di Laura, sposata con don Vincenzo II La Grua, uccide la figlia perché ha infangato il nome della casata divenendo amante del cavaliere Ludovico Vernagallo, il pubblico insorge verso quel gesto tremendo e piange la morte di Laura. L’ascoltatore mette al primo posto l’amore, quel sentimento che non ha regole e costrizioni e che come un fiume in piena tutto travolge e inonda. Così avviene al cinema, così avviene leggendo un romanzo e così avviene ancora ascoltando “l’amaro caso della baronessa di Carini”.
Questo primato dei diritti naturali cui l’uomo obbedisce in modo spontaneo e immediato ci suggerisce una domanda cruciale: cos’è la letteratura e, nel caso nostro, quali funzioni esercita la storia che viene raccontata?
La letteratura è, fra tutte le sue possibili definizioni, una ricostruzione verosimile del reale, nel senso che ci dà un’immagine o un modello della realtà, utilizzando i procedimenti del realismo letterario che sono simili ma non uguali a quelli che si svolgono nella vita concreta di tutti i giorni.
Nel grande mare della letteratura vanno a confluire diversi fiumi; fra questi quello dell’epica è uno dei più importanti e dei più vicini al gusto del pubblico. L’epica narra le vicende eroiche o tragiche di un popolo, di un gruppo di persone o di un solo individuo e smuove i sentimenti più profondi dell’ascoltatore, il quale si identifica con l’eroe e lo segue con trepidazione nelle sue avventure. Inoltre l’epica, come tutte le opere d’arte, procura piacere nell’ascoltatore, nel senso che lo libera da inibizioni profonde e inconsce, disponendolo favorevolmente all’accettazione dei fatti che verranno raccontati. In tal senso l’opera letteraria ha la stessa funzione del lettino dello psicanalista e il cantastorie veste i panni dello psichiatra che cerca di scoprire e curare le angosce e le ansie dell’ammalato.
Già Freud aveva individuato questa funzione terapeutica dell’arte e Norman N. Holland  in un suo saggio memorabile (La dinamica della risposta letteraria – Il Mulino edizioni, 1986) scandaglia l’approccio psicanalitico all’opera letteraria mettendo in evidenza il patto che si instaura fra autore e lettore e, nel nostro caso, fra il cantastorie-mediatore e l’ascoltatore. È in virtù di questo patto che il pubblico giustifica e accetta quel sovvertimento morale che altrimenti non potrebbe giustificare nella vita reale.

 2 - La solidarietà fra le persone del gruppo sociale a cui l’ascoltatore appartiene.
L’uomo vive di consenso e nel consenso, cioè viene pienamente soddisfatto (ha piacere) se si può riconoscere ampiamente nelle regole e nella vita del suo stesso gruppo. I contadini che ascoltavano la storia di Giuliano appartenevano allo stesso ceto e lo stesso bandito di Montelepre apparteneva a quel ceto, quindi in questo caso c’è una doppia identificazione con un maggiore coinvolgimento psicologico e culturale.


3 - La catarsi.
Già Aristotele, nella sua Poetica, ci ha parlato di catarsi della tragedia. “L'arte è considerata un'imitazione della natura secondo verosimiglianza, che arreca diletto e nel contempo trasmette conoscenza. L'arte tragica, in particolare, mette in scena le passioni umane, lasciando comunque trapelare un ordine razionale nel susseguirsi degli eventi. Lo spettatore, per via della verosimiglianza del materiale tragico, è spinto a immedesimarsi nella vicenda fino a ottenere la "catarsi", un liberatorio distacco dalle passioni rappresentate, che interviene nel momento in cui si coglie la razionalità celata negli eventi. Proprio per questo valore conoscitivo la poesia è "più filosofica" della storia. (Microsoft ® Encarta ® Enciclopedia Premium. © 1993-2004 Microsoft Corporation.).
Questo concetto è vicino e consequenziale a quello citato del piacere perché è proprio il piacere che procura quel distacco dalle passioni rappresentate producendo il vuoto nella nostra coscienza; in questo vuoto ci sentiamo di accogliere le ragioni dell’eroe, il quale ci porta una nuova più alta logica delle cose e ci libera dalle nostre costrizioni mentali e culturali.

  4 - La formalizzazione
Questo è un aspetto che è correlato allo stile del cantastorie e a quello dell’opera. Per quanto riguarda il cantastorie tradizionale i tratti più evidenti del suo stile erano:
à        il suo arrivo con un’automobile facilmente riconoscibile per le esplicite scritte;
à        la scelta di uno spazio adeguato;
à        la preparazione dello spettacolo con cartellone, chitarra, sedia, bacchetta ecc.;
à        il suo invito al pubblico ad accorrere per sentire la tragica storia;
à        l’attacco recitato – alto e solenne – con l’invito al pubblico;
à        il racconto della storia che alterna commenti e versi recitati ad altri cantati;
à       la voce stessa del cantastorie, di chiara estrazione contadina, baritonale o tenorile, gutturale e modulata secondo poche ma vibranti tonalità.

Per quanto riguarda la storia essa viene proposta secondo gli schemi tradizionali dell’epos siciliano: sestine o ottave di endecasillabi a rima alterna con un racconto dei fatti che ubbidisce a uno schema ben riconoscibile:
à   un proemio dove si presenta il contesto degli avvenimenti e si dà il primo commento;
à  lo sviluppo della storia, intercalato di osservazioni personali da parte del cantastorie, il quale interviene nella storia con la stessa funzione che ha il coro nella tragedia greca;
à   l’epilogo dove si invoca la divinità a rendere giustizia dei misfatti dell’uomo: L’epilogo ha anche una funzione didattica molto evidente: vuole ricordare agli ascoltatori che bisogna operare il bene e la giustizia se non si vuole incorrere nel disordine sociale e nella punizione divina.
  

Abbiamo voluto esplicitare i tratti più evidenti che caratterizzavano il pubblico dei cantastorie e che forse ancora sono attuali anche per lo smaliziato pubblico di oggi. Siamo coscienti che tutto cambia e si evolve nel quadro di una comunicazione sempre più globale e coinvolgente; ma fin quando ci sarà una storia da raccontare potremo suscitare l’eterno stupore della nostra fantasia, sospendendo per poche ore la nostra incredulità e accettando le regole imposte dal cantastorie e dalla storia che racconta. 

Corrado Di Pietro: da Ethnos 2006















giovedì 5 settembre 2013

Grammatica siciliana


DIECI REGOLETTE DI ORTOGRAFIA E MORFOLOGIA DEL DIALETTO SICILIANO

Sono qui elencate dieci regole di ortografia e di morfologia del siciliano: quelle che riguardano le forme più correnti e più controverse di scrittura dialettale. È un manualetto di immediata consultazione, una guida rapida, certamente non esaustiva ma che, mi pare, coerente, snella e semplice; soprattutto non è appesantita dai molti segni diacritici e da una scientifica trasposizione fonetica del vocalismo e del consonantismo siciliani, che mettono in crisi poeti e scrittori dialettali.

Questa iniziativa non vuole assolutamente inserirsi nell’articolato e complesso dibattito che è in corso sul modo di scrivere il siciliano; intende invece sollecitare proprio i dialettologi a  proporci un manuale completo e scientifico sull’ortografia e sulla morfologia del nostro dialetto, continuando l’opera intrapresa da Pitré, da Avolio, da Piccitto, da Vann’Antò, da Camilleri e da altri. Il siciliano purtroppo non si è risolto in lingua, coi suoi codici grammaticali accettati da tutti, ma è rimasto dialetto, seppure importante e con una meravigliosa letteratura alle spalle, ancora viva; per questo ha una grammatica molto controversa e una scrittura dialettale frastagliata e legata a forme grammaticali locali.  

Le regole qui proposte sono quelle maggiormente condivise in Sicilia, sia in ambito poetico (la poesia è la forma privilegiata della scrittura in dialetto) sia in ambito narrativo ed etnologico. Qualche occhio di riguardo si è avuto per la provincia siracusana, essendo questo un allegato della rivista “I Siracusani”, alla quale va il mio più sentito ringraziamento.

 

 1 - Gli articoli


a - Gli articoli determinativi il e lo diventano lu oppure u (molto usato è anche ’u). La diventa ’a. I plurali i, gli, le diventano li oppure i.
Es. Il fiume > lu / u ciumi; la gatta > la / ‘a jatta; i fiori > li / i ciuri; le mandorle > li / i mènnuli. 

b - L’articolo indeterminativo un diventa un o nu. Nel parlato è frequente l’uso di legare l’articolo alla parola che segue e allora un diventa n oppure diventa m, se precede le consonanti p e b; il legamento si evidenzia con un trattino. Il femminile una diventa sempre na.
Es. Un cani, nu cani, n-cani; m-piru; na casa; n’àcula; m-masuni.

Ø  È ancora molto frequente l’uso di ’n (aferesata) non considerando definitiva la caduta della vocale. Per non generare confusione con la preposizione semplice ’n (in) ho preferito lasciare l’apicetto solo a quest’ultima. 

 

2 - Le preposizioni semplici


a - Di e da diventano ri e, soprattutto nella scrittura letteraria, di.
Es. Di lontano > ri / di  luntanu; da quando > ri / di quannu.

 

b - A rimane a

 

c - Su diventa supra (più vernacolare è susu).

Es. Su di te > supra ri / di tia


d - Per diventa ppi o pi, più raramente pri.
Es. Per la strada > ppi / pi /pri  la strata
      Per te > ppi / pi /pri-ttia

e - In diventa nni oppure ’n che, a seguito del rafforzamento sintattico, viene legata alla parola che segue con un trattino.
Es. In te > nni tia; in cielo > ‘n-celu; ’n-cantina

Ø  Non si sconsiglia neppure il mantenimento di in specialmente nei casi di omofonia con l’articolo indeterminativo. Es. in mari apertu anziché ’n-mari apertu).

f - Con diventa ccu.

Ø  Qualcunu scrive cu ma questa forma appare non condivisibile perché la c iniziale suona sempre forte e quindi va raddoppiata. Ciò anche per distinguere la preposizione dal pronome relativo cu (chi).

g - Tra passa al suono invertito tra

h - Fra resta invariato

 

3 - Le preposizioni articolate


Due forme predominano in Sicilia: la prima tende a rispettare la separazione fra preposizione semplice e articolo; la seconda opera una contrazione fra le due forme grammaticali. In questo secondo caso la contrazione viene espressa con l’accento circonflesso sulla vocale. Davanti a vocale rimane sempre la forma articolata ri lu / ri la oppure a lu / a la o anche nni lu /nni la e nta lu  / nta la.

a - Del, dello diventano ri / di lu oppure rô. Dei, degli, diventano ri / di li oppure rê.
Es. Del campo > ri / di  lu campu oppure rô campu;
       Dell’uomo > ri / di l’omu;
       Dei monti > ri / di  li  munti o muntagni;
       Degli dèi > ri / di  li dèi;
       Degli asini > ri / di  li scecchi o scecchi.

b - Della diventa ri / di la oppure râ . Delle diventa ri /di le oppure
Es. Della strada > ri /di  la strata oppure strata;
    Dell’acqua > ri / di  l’acqua;.
      Delle terre > ri / di  li terri;
      Delle ali > ri / di  l’ali;
      Delle donne > ri / di li fimmini o fimmini.

c - Al, allo diventano a lu oppure ô. Ai, agli diventano a li oppure ê.
Es. Al cinema > a lu / ô cìnima;
      All’angelo > a-ll’àncilu (a l’ancilu è forma più letteraria );
      Ai gatti > a li / ê jatti

d - Alla diventa a la oppure â.
Es.  Alla chiesa > a la / â chiesa;
       All’aria > a-ll’aria / a l’aria

 

e - Sul diventa supra lu oppure supra u.


f - Per i diventa ppi / pi / pri li oppure ppê.

g - Nel diventa nni lu / nnô / ntô.  Nella diventa nni la / nnâ / ntâ. Nei, negli diventano nni li / nta li oppure nnê / ntê. Davanti a vocale rimane la forma articolata nni / nna / nta- ll’.
Es. Nel cielo > nni lu / nnô / ntô celu /cielu;
      Nella terra > ni la / nnâ / ntâ terra.
      Negli occhi > nni / nna / nta-ll’occhi (meno usato nall’occhi)
      Nell’acqua > nna / nta-ll’acqua
      Nei muri > nni li / nta li / ntê / nnê mura

h - Con il diventa ccu lu oppure ccô; con la diventa ccu la oppure ccâ. Con i, con gli, con le diventano ccu li oppure cchê. Davanti a vocale rimane la forma articolata ccu l’.
Es. Con il carro > ccu lu / ccô carru;
      Con le mani > ccu li / cchê manu;
      Con gli angeli > / ccu-ll’ancili (più letterario ccu l’ancili).

 

 

4 - I pronomi relativi


Che diventa ca o chi.
Chi usato normalmente nelle frasi interrogative diventa cu o cu’.
Cui diventa cu’ (ma si mantiene anche cui).

Es. Che vento stamattina si è alzato! > Chi ventu stamatina ca si susiu!

      Chi viene? > Cu’/ cu veni?

      Chi fece questo palazzo lo seppe ben fare > Cu fici stu palazzu lu

      sappi bon fari.

      Il libro di cui si parla > lu libbru ri cu’ si parra

 

5 - Gli avverbi


Perché, poiché > pirchì, ca
finché > finu a quannu
anche, pure > anchi, macari, puru 
inutilmente > ammàtula
qua e là > cca e ddhà (non c’è motivo di scrivere ccà).

6 - Fenomeni di fonosintassi


a – In molte aree della Sicilia (Palermo, Catania, Siracusa) c’è l’assimilazione di  r ed l alla consonante che segue.
Es. Porta > potta;  arma > amma;  finalmenti > finammenti,  salsa >
      sassa; barca>vacca.

b - L’occlusiva dentale sonora d o mantiene lo stesso suono dentale o si trasforma in rotata r . Spesso perde la consonante e rimane solo ’i. Nei dialetti siracusani prevale l’uso della rotata r.
Es. Di te > di / ri tia oppure ’i tia

c – Il nesso nd produce nn per assimilazione. Tale fenomeno si manifesta anche se n e d appartengono a due diverse parole.
Es. Mondo > munnu; grande > ranni o granni
      Non dire > nun-niri / nu-nniri;
      Non dormo > nun-normu / nu-nnormu oppure nun-nuòrmu

d – I nessi mb e nv producono mm sia che si trovino nel corpo della stessa parola o che appartengano a due parole diverse.
Es. Gamba > jamma; convento > cummentu / cummientu;
      Non vedo > num-miru oppure nu-mmiru      

e - In fonosintassi, oltre al raddoppiamento consonantico, le parole vengono legate col trattino.
Es. Cca-ssutta, cca-bbanna, ddhà-ssupra, ccu-ttia


  • Questa regola non è accettata da tutti, anche se l’uso del trattino si sta sempre di più diffondendo. Qualcuno scrive ca ssutta, a mia, pi tutti, a l’arba ecc. È bene fare una scelta precisa e coerente anche se non mi scandalizzerei più di tanto nel vedere nello stesso verso le due forme coesistenti. Ma è bene anche non abusare del trattino di congiunzione, anche quando due o tre parole vengono pronunciate con un’emissione di suono continua. Il parlante è portato a unire le parole tenendo spesso in poca considerazione l’esatta pronuncia e le pause del discorso. È preferibile limitare l’uso del trattino a quei pochi casi dove appare strettamente necessario.


7 - La metafonesi


È un fenomeno di dittongazione vocalica (si può parlare anche di parziale assimilazione), per cui la vocale tonica subisce l’influsso della vocale postonica, che è in genere quella finale. A Siracusa il fenomeno non esiste mentre nei Comuni di Avola (dove passa l’isoglossa metafonetica), Noto, Pachino, Rosolini e Portopalo il fenomeno è ben vivo. La metafonesi riguarda la Ě e la Ǒ del latino che si sviluppano, in siciliano, in ed in presenza di Ī e Ū finali della base latina.
Conseguentemente nelle parole italiane che terminano per –i ed –u le vocali toniche e ed o diventano ed .
Es. FĚRRU > frru; PĚCTU > pttu
      Meglio > megghiu (Siracusa) e mgghiu negli altri comuni.
      Morto > mottu a Siracusa e mrtu negli altri comuni     


 

8 - Le consonanti


a - L’occlusiva alveolare invertita forte, che continua solitamente -LL latino, viene trascritta in diversi modi: dd, dd (con il puntino sotto ogni lettera) e anche ddh. Noi, per motivi di trascrizione tipografica e per semplificare al massimo, preferiamo utilizzare quest’ultima versione, la quale, proposta da Vann’Antò, oggi la si ritrova con sempre maggiore frequenza, soprattutto in poesia. 
Es. Anguilla > anciddha; cappello > cappeddhu o cappieddhu


b -  La c fricativa prepalatale sorda lene viene resa col grafema ç .
     Es. Abbaçiù, çiuri, çiauru, cuçinu, çiatu.

Ø  In effetti non c’è un solo grafema per il fonema c. In Sicilia si evidenziano diverse pronunce, più o meno sibilanti, con posizioni che vanno dal prepalatale al postpalatale e all’aspirata. Per restare in provincia di Siracusa se ne citano due: la prepalatale anzidetta che viene sentita nel capoluogo, quella ancora più strisciante, che si avverte a Noto (fiume >sciumi) e quella più chiusa che si pronuncia a Pachino (ciumi, ciatu, cìnima).

c – La b d’inizio parola si raddoppia
Es. Bbanchina, bbeddhu, bestia, bbiancu, bbisognu, bbunaca.

 

d – La r d’inizio parola si raddoppia
Es. rragnu, rrestu, rriggina, rristari, rrituornu, rrologgiu, rrosa, rrussu.

Ø  L r non è doppia nei casi in cui si è verificata la caduta della consonante iniziale, come in (g)ranni, (g)riddhu,(g)rassu, (d)rittu.

 

 


9 - L’accento


Una regola generale giustifica l’accento ogni qual volta si possa generare un equivoco di pronuncia; in ogni caso sono molti ormai che usano accentare sempre le parole proparossitone (sdrucciole).  Tuttavia il siciliano, come l’italiano, è una lingua piana, cioè l’accento di norma cade sulla penultima sillaba; per di più le parole ossitone non sono frequenti (almeno fino ai primi decenni del novecento il siciliano tendeva a renderle piane aggiungendo un’altra sillaba). Pertanto si potrebbe mettere l’accento solo nelle sdrucciole limitatamente ai casi in cui si possa generare confusione.
Es.  Pèrdiri e perdiri,  jùnciri e junciri, ammàtula, àncilu e angilu.
      Città >cità / citati; pietà >pietà /  pietati; su >supra / susu;
      partì > partiu;  .
 
Ø  I monosillabi sono generalmente senza accento, tranne qualcuno come ddhà, cchiù. Le forme to e so sono preferite a to’ e so’ (con l’uso dell’apicetto per la caduta della i finale) mentre non mi paiono giustificabili le forme accentate di e sò.



10 – L’aferesi e l’apocope

a - L’aferesi si ha ogni qual volta c’è la caduta di una vocale, di una consonante o di una sillaba ad inizio di parola. In siciliano, fino a qualche decennio fa, si usava indicare tale caduta con l’apicetto (quell’apostrofino iniziale che a molti sembra ormai una sciccheria). Oggi tutte queste cadute sono da considerarsi definitive e quindi non c’è motivo di aggiungere l’apicetto, a meno che non si voglia distinguere una forma grammaticale da un’altra.
Es. In e un > ’n e n; la e a > ’a e a
Es. Imbarcare > mbarcari / mmarcari;
      Imbroglio > mbrogghiu / mprogghiu / mpruògghiu;
      Incatenare > ncatinari
      Questo >chistu >stu

b – Come l’aferesi anche l’apocope segnala la caduta di una vocale o di una sillaba, ma in questo caso ciò avviene alla fine della parola. Quando questa caduta non è definitiva oppure si può generare un equivoco con parole omofone, è meglio evidenziare il fenomeno con il solito apicetto.
Es. vo’ per voi o voli; fa’ (imperativo), su’ per sugnu e sunnu, cu’ per cui, po’ e po (può).



Si riportano ora degli esempi di scrittura dialettale secondo le regole che abbiamo esposto. Si tratta di due mie poesie inedite, scritte con due forme ortografiche leggermente diverse ma entrambe condivisibili.
           
                        Lu Pàssiru

                       
                        Nicu
                        ntâ manu ranni
                        rrispira appena
                        u pàssiru
                        scantatu.

                        Com'è luntanu u to cielu, Patri!
                        Ccu-ll'ali tènniri
                        curtu è u volu
                        e duru u rrizzolu.

                        Sàutu caru svulazzu...
                        cercu puru iu
                        com’ô pàssiru
                        u civu râ libbirtà
                        ppâ me fami r'infinitu.

                        E tu mi lassi fari, Patri:
                        ti godi u spittaculu.

                        Sàutu caru svulazzu...
                        cercu stampelli ri nuvuli
                        ppô me foddhi volu
                        ma ’a to casa ri suli
                        mi bbrucia i pinni,
                        comu ’a libbirtà.
                        E rrestu a liveddhu râ terra.

                        Poi, ccu-ll'ali chiusi,
                        m'abbannunu
                        nnâ conca rê to manu.


Il Passero
Piccolo / nella mano grande / respira appena / il passero / spaventato.
Com'è lontano il tuo cielo, Padre! / Con ali tenere / è corto ogni volo / e dura ogni caduta.
Salto cado svolazzo.../ cerco pure io / come il passero / il seme della libertà / per la mia fame d'infinito.
E tu mi lasci fare, Padre: / ti godi lo spettacolo.
Salto cado svolazzo.../ cerco stampelle di nuvole / per il mio folle volo / ma la tua casa di sole / mi brucia le penne, / come la libertà. / E resto a livello della terra.
Poi, con le ali chiuse, / mi abbandono / nel cavo delle tue mani.                           


Aceddi


Orizzunti di celu e di terra
sutta l'ali di l'aceddi.

Luci nta la luci, aria nta l'aria...
volanu di nuvula in nuvula
circannu la terra sunnata
nta li notti di timpesta.
Spiriti di lu celu, l’aceddi.

Spiriti di la terra, l’aceddi,
ali nfuti ca sfùjunu
comu pinzeri annuvulati
ca cercanu albi assulati e sireni
unni riseni ancora
l’alitu di la paci scarpisata.

Truvirannu l'oru di li spichi
e lu vecchiu nidu ntra li rami,
l’aceddi?
Truvirannu lu paradisu di l’àipi
d’arreri a ogni nuvula, l’aceddi?

Sutta l’ali
celi senza cunfini
terri senza dugani
lìbbiri...lìbbiri!

E iu,
girasuli ccu li ràdichi nfussati,
stòrciu la testa pi la mmiria.



Uccelli. Orizzonti di cielo e di terra / sotto le ali degli uccelli.
Luce nella luce, aria nell'aria, / volano di nuvola in nuvola / cercando la terra sognata / nelle notti di tempesta. / Spiriti del cielo, gli uccelli.
Spiriti della terra, gli uccelli, / ali dense che sfuggono / come pensieri nuvolosi / che cercano albe assolate e serene / dove ristagna ancora / l’alito della pace calpestata.
Troveranno l'oro delle spighe / e il vecchio nido fra i rami, / gli uccelli? / Troveranno il paradiso dei gabbiani / dietro ogni nuvola, gli uccelli?
Sotto le ali /  cieli senza confini / terre senza dogane / libere...libere!
E io, / girasole con le radici infossate, / storco la testa  per l'invidia.